Author Archives: Francesco Chiappetta

Il fiume e l’oceano

Dicono che prima di entrare in mare

il fiume trema di paura.

A guardare indietro

tutto il cammino che ha percorso

i vertici,le montagne,

il lungo e tortuoso cammino.

che ha aperto attraverso giungle e villaggi.

E vede di fronte a sé un oceano così grande

che a entrare in lui può solo

sparire per sempre

Ma non c’è altro modo.

Il fiume non può tornare indietro.

Nessuno può tornare indietro.

Tornare indietro è impossibile nell’esistenza.

Il fiume deve accettare la sua natura

e entrare nell’oceano.

Solo entrando nell’oceano

la paura diminuerà,

perché solo allora saprà

che non si tratta di scomparire nell’oceano

ma di diventare oceano.

 

Dicinu ca prima ‘i trasi a mmàri

’u jumu trèmi ddi pàura.

A guardà arretu

tutta ‘a via c’ha fattu

‘i pizzi ‘i muntagni,

’u camìnu lòngu e arravugliàtu.

ca s’è apèrtu mmènzu a voschi e pàisi.

e vìditi nnandi ‘a iddi nu mari accussì gròssu

ca a ngi tràsi da indù ngi po’ sulu

scumparì pi sempi

Ma non ngè ata manera.

’U jumu no po’ turnà arretu.

Nisciunu po’ turnà arrètu.

Turnà arrètu no si po’ fa campènnu.

’U jumu adda favurisci a natura sua

adda tràsi a mmari.

Sulu trasènnu a mmari

’a paùra càliti,

picchì sulu tannu ‘u jumu sàpiti

ca non s’ tratti di scumparisci intu ‘u mari

Ma ‘i divintà mari

(Khalil Gibran)

Viaggio

VIAGGIO DA NAPOLI AL PORTO CINQUANT’ANNI FA…

Non sempre succede di avere un colpo di fortuna. Figurarsi due. Io li ebbi entrambi poiché nacqui a Napoli, ultimo di cinque figli, da madre marateota e portaiola (nell’imprinting conta la discendenza materna anche se a dispetto del cognome); sgravato in casa a Largo Due Porte all’Arenella. Il panorama sul porto di Napoli si apriva sotto il declivio di una collina ricca di coltivazioni di ortaggi e vegetali, pascolo di vacche da latte e altri animali da cortile: un piccolo paradiso non ancora minacciato dalla incombente Tangenziale.

Popò

KOSMOS MAKROS CHRONOS PARADOXOS

Nell’infinità dell’universo il tempo è un paradosso

 

Stanotti è vinùta ‘ na mala ura,

Ma puru idda adda passà;…e pàssiti

Picchì nisciunu jurnu passàtu torniti

Comi maje po’ turnà ancora sta sciaùra

 

Mò s’he fattu quasi jurnu:

E’ tempu di ‘i a levà ‘a catranella

Cent’ammiri avesa annisckatu ieri sira

Centu morzi da ‘a Matredda a don Nicola

Ogni morzu ‘nu pinzeru jettatu a mmari

Pi fa ammuccaà ‘nu pisci….pò

…. ‘na tirata ‘i tuscanu….

 

Antichi san Giuvanni si stanu ruppennu

Ammenti ca angora staje navighennu.

Quante memorie su passate da tant’anni

I cani c’atturcigliàvinu guinzagli ‘ni gammi

Giuvintù finita unt’a ‘nu paru ‘ vrazzate

E nuje abbàsciu ‘u bar a sparà cazzate..

 

’A morte

T’ha ngucciatu int’’u lettu tùu

E t’ ‘nzunnarrài

Ca no sèrviti a nnenti rispirà

Ca ‘u silenziu senza fiatu

E’ musica ca po gghì

Picchì si muzzicu comi ‘na lambuddina

 

E t’ammortisi com’ ‘a idda

’Na morti accussì. He sintutu

Cchiù duluri tinennu mmanu na rosa

E ti si sckantàtu cchiù

Pi ‘na frunna caduta ‘nterra

 

Mò no dicu ‘nu grandi funirali

Pi n’erricurdà ca sumu mortali

Ma mancu ‘na ndinnata minuscula ‘i campana

P’ammuccià ‘u rumùri surdu d’ ‘a funtana?

Questa notte è venuta un mala ora

Anche lei deve passare: … e passa!!!

Perchè nessun giorno passato torna

Come mai può tornare ancora questa sciagura

 

Ora si è fatto quasi giorno

E’ tempo di andare a salpare la coffa

Cento ami avete innescato ieri sera

Cento esche dalla Matrella a don Nicola

Ogni esca un pensiero gettato a mare

Per fare abboccare un pesce …poi

… una tirata di toscano

 

Antichi comparatici si stanno rompendo

mentre ancora stai navigando.

Quante memorie passate da tanti anni

I cani che attorcigliavano guinzagli alle gambe

Gioventù finita in un paio di bracciate

E noi, giù al bar a sparare cazzate

 

La morte

Ti coglie nel tuo letto

E sognerai

Che non occorre affatto respirare

Che il silenzio senza respiro

E’ una musica passabile

Perchè sei piccolo come una scintilla

 

E ti spegni al ritmo di quella

Una morte solo cosi. Hai sentito

Più dolore tenendo in mano una rosa

E provato maggiore sgomento

Per un petalo sul pavimento

 

Ora non dico un grande funerale

Per ricordarci che siamo mortali

Ma nemmeno una piccola suonata di campana

Per nascondere il rumore sordo della fontana?

 

 

Il corsivo è tratto da “progetto un mondo” e l’epigrafe da “bagaglio del ritorno” di Wislawa Szymborska

U Portu (di Francesco Chiappetta)

Il Porto

Il Porto è mia madre che lava i panni alla fontana ; mio zio che rammenda reti al fresco del fondaco: noi che, da bambini, andiamo scalzi sulla rena cocente. Il Porto è spesso questi ricordi,soprattutto per chi è costretto a non abitarlo,a viverlo nella sua affascinante,monotona,imprevedibile e naturale quotidianità. Ultimamente, grazie alle belle intuizioni fotografiche di Tania, il ricordo si accende per mezzo di una luce particolare, perché è la luce la vera protagonista di queste fotografie (etimologicamente dal greco photos=luce e graphein=scrivere).

Lance e gozzi sorrentini

Lance e gozzi sorrentini

Abbiamo più volte sottolineato, nelle varie sezioni del sito, quanto sia forte e sentito il legame fra la marineria portaiola e la tradizione navale di Sorrento, cioè con i costruttori di gozzi e lance della costiera. Abbiamo anche cercato di rappresentare visivamente le parti della barca partendo dai nomi delle singole parti dello scafo. In questo articolo si vuole approfondire, riprendendola per sommi capi, la storia dei cantieri di Sorrento e qualche particolare di tecnica costruttiva con qualche foto a corredo tratta dal libro di E. De Pasquale “Lance e gozzi sorrentini”.
A metà del XVIII secolo (intorno al 1650) nelle marine di Meta e Piano di Sorrento, rispettivamente Alimuri e Cassano, si costruivano tartane e feluche e, successivamente brigantini a palo (primi anni dell’800). Le famiglie dedite alla costruzione di questi natanti erano principalmente legate a due maestri d’ascia: Gaspare Mauro e Giuseppe Castellano.
A Marina Grande di Sorrento i cantieri erano dei maestri Fiorentino e Aprea (Cataldo e Antonio), specializzati, quest’ultimi, nella costruzione di barche da pesca. A questa discendenza di maestri d’ascia facevano riferimento i pescatori del Porto per ordinare il loro nuovo gozzo o lancia.
Fino a quando, con l’avvento del motore a vapore, si resero necessarie costruzioni navali adeguate e il mercanteggiare si tramutò in commerciare, le barche in legno costituivano il solo mezzo di collegamento della Penisola Sorrentina con Napoli e il resto del Regno delle Due Sicilie. La strada che attualmente collega Napoli alla Penisola Sorrentina fu costruita solo nel 1834. Per rendere idea di quale fosse il movimento di natanti prima di questa data, basta ricordare che fino al 1915 partivano dalla penisola almeno 30 feluche al giorno per Napoli.
A Sorrento si costruivano già sotto i Borbone brigantini a palo e golette armati ed equipaggiati per traversate oceaniche che però ebbero maggiore utilizzo verso fine Ottocento (vedi foto Marina di Cassano).
La costruzione di questi velieri avveniva su arenili dati in concessione e si impiegavano molte maestranze, non solo nel cantiere navale vero e proprio, ma soprattutto nel grande indotto che essi generavano: filatura delle cime, cucitura delle vele, fabbricazione di bozzelli e ghie (sistema di carrucole e cime per sollevare alberi, vele e pesi in genere), fanali, botti e barili…
Parallelamente a questa cantieristica che possiamo definire “pesante” si costruivano moltissimi natanti destinati alla pesca sotto costa: i gozzi e le varchette (foto modelli gozzo e lancia).
Il gozzo a menaide e la varchetta erano entrambi con prua e poppa di forma aguzza; il primo, alto di bordo a prua per fronteggiare il mare in navigazione, ma entrambi più bassi a poppa per facilitare il “mestiere”. Nella pesca alle alici, detta con rete a menaide, a poppa si montava la lampara e la forma aguzza della stessa facilitava la voga in quella direzione. Il gozzo a menaide aveva lunghezza da 27 a 32 palmi (un palmo= 26,37 cm), generalmente a quattro remi. Per la pesca alle costardelle si impiegavano gozzi più piccoli (23-27 palmi) che trainavano, ciascuno, un capo della rete per offrire maggior superficie al cammino veloce delle piccole aguglie. Con il gozzo a menaide si pescava anche con la sciabica (vedi sezione dedicata). La varchetta, di soli 14 palmi (circa 3 metri e 70 centimetri) era usata sia come lampara che come barca da reti da posta e pesca con le nasse, cioè pesca sotto costa (foto varchetta).
Per esercitare il mestiere spesso, i pescatori, (qui voglio ricordare che al Porto si distinguevano i pescatori dai marinai col fatto che i primi erano proprietari di barche mentre i secondi prestavano solo manodopera) menavano una vita di sacrificio (compravano il gozzo dopo anni di emigrazione in Venezuela, Brasile e Argentina) e sovente il contratto col cantiere era a debito da scontare con la pesca, il cosiddetto “con parte a bordo”, dove una parte del guadagno frutto della pesca veniva destinato all’estinzione del debito contratto.
Ogni gozzo veniva ordinato al cantiere secondo le necessità dell’armatore, in genere in funzione dei “pezzi” di rete da imbarcare (si diceva gozzo più “tirato” o “menato” a poppa o prua a seconda della larghezza delle costole del fasciame per avere più galleggiamento dove si caricavano le reti) e per meglio fronteggiare le condizione medie del mare locale ( si diceva più “zanconato” o “masconato” in sostanza l’apertura della prua). Altra caratteristica di scelta era la quantità e qualità dei marinai, spesso coincidenti col nucleo familiare, sicché, ai figli più piccoli si affidava il remo (palella) più leggero del lato di dritta. L’attenzione alle esigenze dell’armatore sono state e sono di primaria importanza nella costruzione del gozzo tanto che, ancora oggi, i motopescherecci che richiedono l’argano di salpata da un lato devono essere costruiti in modo tale da bilanciarne il peso.
Il materiale di costruzione dei gozzi sorrentini è legno di grande qualità, anticamente scelto nei boschi direttamente dal mastro d’ascia. In genere si usava il legno di Pigna femmina del Vesuvio per il fasciame esterno e quercia, olmo e gelso per chiglia e ossatura. I legni più duri si tagliavano al principio d’inverno (attività arborea minima) mentre quelli più resinosi a fine inverno e con luna calante per non farli marcire. La pigna si taglia in tavoloni posti a stagionare al riparo dal sole e stipati in modo da far passare aria fra essi. I tronchi di quercia e olmo, una volta tagliati, venivano interrati presso le rive di fiumi o in zone particolarmente umide, restandovi almeno un anno; questo serviva a uniformare le tensioni interne al legno e a stabilizzarne la consistenza evitando le spaccature anche a costruzione naviglio eseguita. I maestri d’ascia dicevano che questo trattamento, con il quale si eliminavano essenze di color nero, faceva perdere la superbia al legno e lo faceva diventare più maneggevole da lavorare. La parte centrale dei tronchi, il cosiddetto “core ‘e miezo”, essendo la parte più dura e rigida veniva destinata alle strutture primarie. Le parti più esterne, “d’ ‘o canto ‘e fora”, alle parti secondarie o alla costruzione dei remi (palelle) che devono essere resistenti e in parte elastici. I frisi e la sopracinta si facevano in frassino o noce e non venivano pitturati.
I gozzi sorrentini erano mossi da vele latine (triangolari) atte a risalire i venti di levante e ponente, soliti nella navigazione verso (mattino) e da (sera) Napoli. I gozzi napoletani era mossi da vela tarchia (quadrangolare).
La tecnica di costruzione è stata tramandata oralmente da padre in figlio e si fonda più su principi pratici che su un vero e proprio progetto: l’arte si apprendeva prima della scolarizzazione. Per costruire un gozzo si usa, per tracciarne le forme, il “mezzo garbo” (foto). Si tratta di un modello che riproduce metà dell’ordinata centrale sulla quale base si costruiranno tutte le altre ordinate sia verso prua che verso poppa. Le prime sei ordinate verso poppa, unitamente alle prime sei ordinate verso prua, costituiscono il cosiddetto “terzo medio centrale” della barca. Allo stesso modo si costruisce il “terzo medio di prua” e quello di poppa, il primo convergente verso il dritto di prua e il secondo verso il dritto di poppa (foto scafo). Su queste ordinate così composte e fissate alla chiglia, si inchioda la cinta, ossia la prima tavola di fasciame, più spessa delle altre, sagomata da poppa a prua atta a abbracciare e fermare tutta la struttura. Successivamente si passava a inchiodare tutte le altre tavole del fasciame e a seguire la fase di calafataggio a rendere stagno lo scafo.
Ogni costruzione inizia sempre fissando il crocifisso sulla prua.
Con lo sviluppo della nautica da diporto anche i cantieri sorrentini adeguano la produzione navale e introducono le lanzetelle(foto) alle quali è possibile abbinare motori fuori bordo avendo poppa a forma tronca. Si tratta di piccole imbarcazioni di dimensioni simili alle varchette che costituivano i tender di unità navali maggiori. A Marina Grande di Sorrento si costruivano specchi di poppa a cuore che aveva la caratteristica di essere posizionato in alto rispetto alla linea di costruzione per fare in modo che il fasciame si chiudesse sul dritto di poppa invece che sullo specchio (foto lanzetelle).