Le donne del Porto

Le donne del Porto

Sono stato “rimproverato” per non aver dato alle donne del Porto, nei racconti della sezione “la vita del borgo”, il risalto che meritavano. Per la verità “l’argomento” è stato trattato nella pubblicazione con il titolo: “le donne dei marinai” nella sezione a loro dedicata; questo ha potuto far pensare che avessi considerato queste donne in secondo piano rispetto ai loro mariti. Messo a parte il fatto che questa considerazione non mi ha mai minimamente sfiorato e che non è mai stato mio intendimento far trasparire neppure una sensazione del genere, a pensarci bene, il borgo, fra gli anni fine ’50 e inizi ‘70 era popolato da diverse famiglie le cui donne non necessariamente erano madri e/o mogli di marinai. A riprova di questo basta leggere l’articolo sopra citato, unitamente a quello sui “libbani” per rendersi conto quale fosse il “peso specifico” di ognuna delle donne del Porto e del giusto risalto loro tributato.

Se c’era una cosa che accomunava tutte loro era il duro lavoro quotidiano che iniziava di buon mattino, per dedicarsi alle faccende domestiche, (spesso coadiuvate dalle nonne, specie per accudire i figli), per andare a vendere il pesce o per procurarsi l’erba “alfa” per produrre i libbani o dare da mangiare al maiale che, ai tempi, ogni famiglia allevava. Non ricordo, a meno di qualche rara eccezione dovuta a caratteri ereditari o di costituzione, nessuna donna “in carne” (Tetella o ‘Ndonetta moglie di Ignoagno a parte), sia tra le anziane (mia nonna Marina, ‘za Lucia, ‘za Lisetta) che tra le giovani; d’altronde con tutto il lavoro che facevano, sarebbe stato strano il contrario. In quegli anni le famiglie numerose erano la normalità. Il numero dei figli variava da un minimo di tre ad un massimo di otto se non più e tutti, appena in età utile, davano una mano: alla madre, le figlie, al padre, i figli, senza troppe storie per non ricevere schiaffoni in faccia in caso di opposizione. Lo stesso trattamento autoritario veniva loro riservato a scuola dalle maestre e in chiesa, dal prete (vedi la storia di Padressalerno); ciò malgrado, non ricordo sia mai morto nessun bambino.

Tornando alle donne del Porto vorrei cercare di ricordale tutte, non fosse altro per due ordini di ragioni: la prima per convincermi di non essere totalmente scimunito, scavando nei ricordi personali, la seconda per dimostrare a chi vive il borgo odierno quanto, questi, fosse popolato ai tempi in cui qualche schiaffone dal mitico prete lo presi pure io.
Sicuramente non riuscirò ad essere esaustivo, ma faccio un tentativo sperando di non dimenticarne nessuna. Per agevolare lo sforzo di memoria partirei da una zona del Porto per poi, come su una scacchiera, posizionare le varie signore, magari associandole alle rispettive abitazioni dell’epoca. Comincerei dalla parte nord ossia dove attualmente si trova il ristorante 99. Nel palazzo dove è adesso il ristorante, alloggiavano le sorelle Riccio, Vincenza sposata con Iannini Biagio, Franceschina maritata con Cernicchiaro Biagio e Teresa, di cui, onestamente, non ricordo granché; subito dopo il palazzo vi erano delle scale che portavano all’abitazione di Rosolia, alla base delle quali c’era la cantina ‘i Virgiliu (che abitava con la moglie sopra la cantina) e un piccolo locale adibito a macelleria. Nello stesso palazzo abitava anche Assunta Cicciò, maritatata con Pagliaro Aniello e sorella di Virgilio. All’epoca, immediato dopoguerra, Rosolia era dedita a confezionare corde vegetali ed aveva un piccolo negozietto dove vendeva bibite, negozio poi chiuso verso la fine degli anni Sessanta.

Successivamente, a metà degli anni ‘70, faceva da cuoca al famoso architetto Berardi (progettista con altri della stazione di Santa Maria Novella a Firenze -1935) con cui aveva spesso vivaci scambi di opinione sulla cottura e preparazione delle triglie (vedi nella sezione storie “L’architetto” di Aldo Fiorenzano). Berardi pretendeva che le triglie gli venissero servite senza la testa, mal sopportando di vedere l’occhio delle stesse che, cotto, gli faceva senso. Puntualmente Rosolia dimenticava le disposizioni fino a che, un giorno, venne redarguita ad alta voce da “Camposanto”, così veniva soprannominato dai portaioli l’architetto, sia per l’esile e slanciata figura (un Don Chisciotte ante litteram) che per il vezzo di vestire in abiti bianchi. Rosolia, alzando a sua volta il tono di voce, prese una testa di triglia e se la mise in bocca asserendo che, essendo la parte migliore del pesce non si poteva assolutamente non mangiare, lasciando sbigottito il Berardi. Proseguendo per via Racia (di fronte l’attuale effigie di Padre Pio) viveva la famiglia Tocci composta da Diego, dalla moglie Franca (maestra elementare), dalla nonna Maria detta “’a Pizzuta” e da cinque figli.

Scendendo le scale che costeggiavano la casa, si arrivava direttamente in spiaggia nei pressi d’ ‘a “putia ‘i Tetella” (vedi nella sezione “vita del borgo”: le botteghe del Porto e nelle poesie “’a putia ‘i Tetella”) dove prima Maddalena e poi la figlia Tetella, vendevano sia generi alimentari che tabacchi occupandosi anche di commercializzare le corde vegetali prodotte dalle donne del Porto. Tetella era una donna corpulenta, dal carattere sbrigativo e spigoloso, che spesso mal si addiceva ad una persona comunque a contatto con la clientela.

La sua dimora era nella casa con gli archi che si affaccia sulla piazzetta sopra l’attuale bottega del Porto, dimora che divideva con la maestra ‘i Gnaziu, alias Trofimena Lembo (1893-1994), sua zia, Biagio, detto ‘Gnaziu e za’ Betta. La maestra è stata per anni il punto di riferimento educativo per tutti i giovani del Porto ed esercitava l’insegnamento in una stanza della casa che fu sempre, anche in seguito, definita “’a Scola”. Precedentemente insegnava a Marina di Maratea dove veniva accompagnata in barca dal fratello ‘Gnaziu (a remi). Non era insolito e strano, per noi ragazzi che spesso assistevamo e aiutavamo Tetella in negozio, sentirsi dire: “va ‘ncoppa, int’a scola, a piglià ‘i Stop senza filtro”.

Ricordo benissimo, quando la maestra già vecchia, mi apriva la porta per farmi entrare in questo stanzone dove, in un grande comò, sopra il quale campeggiava uno yorkshire modellato in legno scuro, erano stipate centinaia di stecche di sigarette. Tetella era molto ipocondriaca e aveva un timore esagerato di essere contagiata: l’uso intensivo di alcool è vivo nel mio ricordo tanto quanto erano presenti, dietro ogni bancone, bottiglie di “spirito” come si chiamava comunemente l’alcool etilico. Nel palazzotto vicino abitavano le sorelle Zaccaro, Faustina e Vincenzina (‘i Frastina per corruzione del nome Faustina già ai tempi della nonna delle sorelle, detta Vicenza ‘i pizicu), la prima sposata con Zaccaro Antonio detto ‘u Baruddu (il barone) da cui ebbe Giuseppina e la seconda non maritata.

Zia Giuseppina ricorda ancora bene che, ragazzina, veniva spesso fermata da Vicenza ‘i pizicu per essere aiutata a infilare il filo da cucire nell’ago. Sopra la casa dove abitavano i discendenti d’ ‘a Pizzuta abitava Rachelina, una delle sorelle Di Flora di cui si dirà, sposata in seconde nozze da Zaccaro Mosè, fratello di Salvatore che sposò za’ Lisetta madre di zio Beniamino. Il palazzotto centrale, per intenderci quello dove si trova il bar e il ristorante “Lanterna Rossa” erano abitati da za’ Lisetta e da Mbi mbi, così era chiamata Maria Di Flora, da sempre dedite alla lavorazione dei libbani nel fondaco dove abitavano d’estate, quando la residenza, usata in inverno, veniva affittata ai turisti (quasi esclusivamente senisesi).

I colli di libbani accatastati in attesa del camion su cui venivano esportati emanavano un umore fortissimo di erba macerata: forte prova per narici già cittadine. Non ci soffermiamo sulla lavorazione dell’erba Alfa già abbondantemente descritta nell’articolo dedicato ma è d’obbligo ricordare i colpi ritmati sui mazzi di erba che risuonavano nei pomeriggi infuocati di luglio. Nella palazzina in parte a questa dove abitavano le sorelle Di Flora dimoravano i fratelli Fiorenzano, Biagio e Felicia. Il primo maritato con Formica Marina, nostra nonna e madre di Rosina e Giuseppina, la seconda maritata con Schettino Pasquale. Al posto dell’attuale ristorante abitava za’ Lucia Buraglia maritata Iannini, madre di Ciccillu lentu lentu, che oltre a dedicarsi alla produzione delle corde vegetali coltivava un orto ‘na chiana.

Anche in questo caso i fondaci erano abitati d’estate per lasciare in affitto ai turisti gli appartamenti mentre, prima di questo utilizzo e fino al primo quarto del ‘900, erano adibiti a negozio (pane e vino) gestito dalla bisnonna Lemmo Rosina. Il palazzo sulla destra, prospiciente la chiesa, era abitato da Angiulina ‘i Gnaziu, moglie del mitico Zu Monacu e sorella della maestra, dello stesso ‘Gnaziu e za’ Betta. Continuando verso la spiaggia del Crivo, dove attualmente si trova il ristorante Za’ Mariuccia, abitava la famiglia Iannini, composta da undici figli di cui otto donne.

Fra queste, pur ricordando tutti i nomi (Elena, Nicolina, Assunta, Raffaella, Vincenza, Elvira, Maria Stellata e Maria, queste ultime due monache a Roma) menzioniamo solo Za’ Lena, quale attiva produttrice di libbani oltre che tutrice esemplare dei nipoti restati orfani di entrambi i genitori, in giovane età. Le altre sorelle presero strade diverse che le portarono lontano dal Porto. Al di là dal vicolo, in una casa che non era come la si vede adesso, abitava Tresina ‘i uà uà, figlia di De Vivo Eugenio detto, appunto, uà uà. Appena sopra la loro casa abitava la mitica, almeno per me, giovane frequentatore della “chiana”, Tresina ‘i sceru, abile lavoratrice e produttrice di libbani. Una volta sposata con Bernardo Martino, si trasferì col marito in Venezuela. Raccontava spesso che al tempo dell’influenza “Spagnola”, il marito la curò con grande amore nascondendo la malattia alle Autorità.

Quando, all’età di 42 anni Bernardo venne a mancare, Tresina prese il piroscafo e, insieme ai figli tornò a Maratea. Oltre a Filumena, gli altri figli erano Giuseppe (Giuvanni senza paura), Luisa (che poi sposò Cilarzuzzu Zaccaro da cui ebbe i figli Maria ,Giovanni e Bernardo.) e Biagio detto Blasittu ‘u nachiere. Quando in famiglia comprarono la televisione, Tresina ne restò affascinata e ogni momento era buono per chiedere ai nipoti “appicciàti a ràdiu” ed era dura farle capire che i programmi cominciavano solo in alcune ore della giornata. Giuseppe Martino era il marito di Luigina De Biase che, insieme alla sorella Franceschina, costituiva la migliore coppia di raccoglitrici e lavoratrici di erba alfa del Porto.

Sempre in zona trovavamo ‘Ntonetta ‘i Sanfrancischeddu, ‘Ntonetta ‘i Ignoagno (all’anagrafe Zaccaro Francesco), sorella di zu’ Peppu e quindi anche detta ‘Ntonetta ‘i Virgiliu. Per questa familiarità con il norcino per antonomasia del Porto, badava più ad aiutare nella conduzione della macelleria e si occupava solo sporadicamente di libbani. Poco sopra la residenza dei Sanfrancischeddi, stava la storica perpetua della chiesa della Madonna di Porto Salvo: Mariuccia ‘i rosa. Ancora poco sopra si trovavano le sorelle Licasale, figlie di Zaccaro Raffaella, detta Feluccia: Maria e Angela. Nella casa che svetta sul Crivo abitava Taliuccia, moglie di Romano Biagio e madre di Salvatore e Vincenza.

Vanno ricordate quali portaiole acquisite per matrimonio Italia Persico, maritata con Romano Dionisio e Assunta Persico, maritata con Schettino Raffaele detto ‘u Vaccaru. Prendendo la scalinata che dalla via che porta alla chiesa si inerpica verso la Panoramica, troviamo le abitazioni dove dimoravano Romano Clara, Romano Gaetana detta za’ Tanella maritata con Formica Pasquale, e le altre due sorelle Lenuccia e Carmela maritate con marinai di Scalea. In parte alla Chiana, abitava Maria ‘i Giaravulu, sposata con Tarallo Gennaro. Riprendendo le scale verso la Panoramica si incontravano le case dove abitavano Peppina ‘i Roccu, maritata Versace Antonio, da cui ebbe Rocco, Domenico, Francesco, Caterina, Bruna, Pompea, Maria e Bettina. Di fronte alla casa dei fratelli Cacciatore, aveva una sorta di minimarket ‘Ndoniu Alfieri, un amalfitano, che ha gestito con la figlia Carmelina il negozio fino al secondo dopoguerra. Sul lato sinistro, sempre salendo, si trovava la casa di Fortuna Amato detta Furtuna ‘i Posciò, figlia di Amato Raffaele.

Appena sopra trovavamo Poldina, maritata con Lammoglia Francesco detto Marcinarru con la figlia Nadina altra produttrice di libbani; Vicenza Buraglia detta ‘a Portaiola madre di Fiorenzano Francesco maritato con Nannina (ossia Ignacchiti Anna) e nonna di Giuseppe, Biagio e Aldo. A seguire Angiulina ‘i za Rita, maritata Brando, con i figli Antonio, Giovanni, Franca (‘i za Rita), Gaetano (maritato con Nunziatina) e Maria. Cumma Franca ‘i za Rita era maritata con Lemmo Giovanni.

Appena sotto la Panoramica vivevano le sorelle Panza (madre Zaccaro Francesca), Vincenza ‘a Pulacca maritata con Zaccaro Antonio (uno dei fratelli Giuvannuzzi) e Marietta maritata con Schettino Gaetano. Infine, oltre la Panoramica e quasi alla stazione, ricordo la figura di una donna corpulenta, si chiamava Ciccarella ‘i travagliaturi: era una massaggiatrice esperta che curava i reumatismi con olio di oliva extravergine: sono passato sotto le sue mani. Questo ricordo delle donne del Porto, scritto insieme a mio fratello Franco e con la “consulenza” preziosa di zia Giuseppina, ha, per forza di cose , messo in evidenza anche quante famiglie erano presenti in quegli anni nel borgo marinaro.

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2 Responses to Le donne del Porto

  1. bernardo ha detto:

    Bravu Toni mitico presidente Comitato Porto con questo racconto hai reso giustizia alla parte
    lavoratrice silenziosa e decisiva della vita del borgo. Grazie

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  2. Laura ha detto:

    Una passeggiata tra ricordi che sfumano, volti che perdono sempre più i tratti, odori erbacei e colpi cadenzati del “mazzuocculo” che interrompevano il caldo riposino pomeridiano imposto a noi ragazzini. Alcune di loro le ricordo appena o affatto ma molte sono ben presenti davanti le porte delle loro case, in fila da Tetella a raccontarsi il pranzo da preparare o il servizio che le aspettava. Mia madre diceva sempre che al porto il governo era in mano alle donne sia per la loro capacità decisionale che per quella imprenditoriale. Credo non sbagliasse…

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