Il Crivo

La spiaggia del Crivo, attualmente racchiusa fra i moli del Porto di Maratea, è, per me, non solo un luogo del ricordo ma un vero e proprio sentimento, cioè la diretta connessione corpo-anima. In questo luogo della memoria le esperienze fisiche dalla preadolescenza alla gioventù si sono impresse nell’animo profondo e costituiscono, in questa età matura, la riserva esperienziale cui attingere in ogni momento, per ogni occasione.

Solitamente mi piace partire sempre dal significato delle parole perché in esse si nasconde non solo un significato dell’oggetto ma anche la sua essenza. Crivo: il nome latino clivus, corrispondendo ad un luogo “boscoso per lo più di arboscelli, erto e ripido” ben si addice al luogo che pure è aderente al greco (χρύφιως) cryphίos, ossia “nascosto”. La spiaggia è stata, almeno per quelli della mia generazione, una palestra di vita, una Grande Madre totemica, inconsapevolmente venerata, recitando (scopiazzando i rituali indiani in Tex Willer) la preghiera pagana del Pow Wow che celebrava la cultura nativa degli indiani d’America. Per me, che vivevo lontano dal Porto per i lunghi mesi scolastici, la prima prova che mi offriva la spiaggia del Crivo era la dolorosa formazione del callo, tipico del “pedi jancu” cittadino, abituato al comfort delle scarpe.

Era obbligatorio attraversare questa via dolorosa, e a volte lacrimosa, se si voleva godere appieno della libertà di andare a piedi scalzi, a qualsiasi ora del giorno, sui sassi di crescente dimensione allontanandosi dal bagnasciuga. Avevamo meno di dieci anni, forse anche otto, quando, in costume e con un asciugamano, si usciva di casa per andare al Crivo a consumare la prima parte della giornata: una mattinata piena di sport nella naturale palestra omnicomprensiva. Sul finire della spiaggia, quella parte dove l’ombra resisteva fino alle dieci dl mattino, era allestito un mini campo da calcio e lì si giocavano partite fino a quando le schiene, madide di sudore, risplendevano sotto i primi raggi del sole. Bernardino, Biagio, mio fratello Mario, Franco, Flaviano, Gabriele, Giulio, Tonino, Mario, Luisito, Turuccio, Angiulino…e qualche turista, formavano squadre per ogni sport. Si faceva pallavolo, pallanuoto, tuffi (Virgilio, Luisito e Gigino Morelli i più arditi) a volte rugby; originalissime prove d’apnea consistevano nel trovare, in cima alla spiaggia, le pietre più grandi, del peso giusto in modo che, imbracciate, davano la possibilità di fare camminate sottomarine emergendo solo a fiato finito: il vincitore era colui che emergeva più lontano dalla riva. Non mancavano, per rompere la fatica con altra fatica (la gioventù non conosce riposo…), le altissime piramidi umane (io ero, dato il peso piuma, destinato a salire per ultimo, quando mi riusciva: cadere, sebbene in acqua, da altezze fatte di corpi non era esente da pericoli).

Altro gioco, per così dire, a eliminazione era il cosiddetto “munduni” che consisteva nel formare a riva un cerchio di persone unite per le braccia che, allontanandosi verso il mare aperto, facevano la gara a chi restava con la testa emersa (era un gioco dove era importante la spinta di gambe per non subire le tirate verso il basso ad opera delle braccia che spingevano sulle spalle dei vicini). Verso le tredici, sfatti di fatica e affamati, ci si avviava verso casa per il meritato ristoro. Spesso, nel pomeriggio si svolgevano nuovamente gare e attività leggermente più pericolose, dato il minore affollamento della spiaggia. Verso l’imbrunire, sempre sotto il costone sud, si organizzavano delle solenni “piscuniate” ossia la sfida di due squadre composte da tre o quattro ragazzini che, nascosti dietro fortini costruiti con pietre o materiale trovato in spiaggia, cercavano di lapidarsi a sangue.

Con Tonino, abbastanza di frequente, si organizzavano battute di pesca subacquea con rudimentali archi preistorici (fatti con stecche di ombrello) che pure consentivano discreti bottini. Ricordo ancora il nome del canottino rosso “Juppiter II”…. Così passavano le giornate da fine maggio a fine luglio, in attesa di agosto, il mese del Pow Wow di mezza estate con tanto di falò sulla spiaggia e attesa dell’alba a suon di musica. Agosto era anche atteso per la cosiddetta “ruttura ‘i tembu” ossia ‘a scursura d’ Assunta. Difatti, in Sicilia si dice un proverbio, e credo anche in Calabria, che recita: “austu e riustu è capu di ‘mmernu” cioè che agosto e settembre, per via dei primi acquazzoni si possono considerare l’inizio d’inverno. Questo cambio repentino del meteo faceva sì che i forti venti di Libeccio, dopo giorni di Scirocco che alimentavano pioggia, dessero forza a mareggiate che rendevano il Crivo, spiaggia ad uso esclusivo dei “surfisti” locali e aperta ai soli “arrunzillatori”.

Onde fino a quattro metri venivano sfidate lanciandosi con irresponsabile coraggio al loro interno: come entrare in una enorme centrifuga e senza sapere se, e quando, se ne usciva. La spiaggia era anche un teatro a cielo aperto, ed essendo posta a favore di imboccatura vecchio porto, offriva spettacoli di ogni genere. Ricordo in particolare l’arrivo in porto, con motore a tutta forza, della “ ‘a Muzzarella”, la barca del conte Rivetti che, poco tempo prima, urtando la secca della Jumenta, aveva riportato uno squarcio enorme sulla parte inferiore della prua. In questo modo, tenendo alta la falla sul pelo acqua, si evitò il sicuro affondamento. Questo è solo un piccolo esempio, per sommi capi, di una esperienza di vita nella spiaggia più bella della costa di Maratea. Mi piace concludere questo ricordo parlando di una vecchia storia, simile alle leggende di un tempo, quelle che servono a riperpetuare le tradizioni, sentita dalla bocca di zio Beniamino e che ho sentito di trascrivere così nel nostro Funnicu:

U Crivu nonn è ‘nu sitàcciu.

ma ‘a rena d’ i portaioli.

Dicìnu l’antichi ca ‘i vìpiri

ngi scinnìnu p’ amuriggià cu ‘i murìni.

Il Crivo non è un setaccio.

ma la spiaggia dei portaioli.

Dicono gli antichi che le vipere

ci andavano per amoreggiare con le murene.

I greci danno alla murena il nome di μùραίνα, in quanto si piega formando circoli. Dicono che questo animale sia unicamente di sesso femminile e che concepisca accoppiandosi con un serpente: per questo i pescatori lo catturano richiamandolo con un sibilo che imita quello del serpente stesso.”

Credo, con buone possibilità di essere nel vero, che Beniamino e i marinai del Porto, non conoscessero “Etimologie o Origini” di Isidoro di Siviglia da cui è tratto il corsivo sottolineato appena riportato.

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