Carolina
Con grande piacere pubblichiamo un racconto di Italia Romano che ha conseguito il Premio Narrativa al Fiuzzi d’oro 2015. Nel rivolgere i nostri più vivi complimenti all’autrice del racconto, ma soprattutto nostra carissima amica, ricordiamo l’intento con cui è nato questo sito: ospitare chi voglia contribuire a tramandare ai nostri figli e a chiunque abbia nel cuore questo borgo marinaro, le storie e le emozioni che noi, in minima parte, abbiamo avuto il piacere divivere in prima persona.
Tonino, Francesco e Aldo.
Alla fine del 1800, Carolina viveva in un piccolo borgo marinaro con il marito e le sue tre figlie. Il marito era pescatore, come tutti gli uomini di quel piccolo paesello, lei si occupava della casa, delle ragazze, ed insieme a loro confezionava delle corde vegetali, chiamate “libani”, che poi vendevano per i vivai ittici. Le cozze e le vongole, infatti, avevano una speciale predilezione per attaccarsi e proliferare intorno a queste corde che erano, di conseguenza, molto richieste. Questi laboriosi intrecci erano frutto di ore di lavoro, che cominciava molto presto per le donne di queste zone. Sin dalle prime luci dell’alba infatti, si inoltravano lungo le pendici del monte che digradava lungo la costa, alla ricerca delle piante migliori di quest’erba resistente ma affilata come un rasoio, per farne dei fasci che caricati sulle loro teste, venivano portati a casa. Erano strane processioni di queste donne belle ed altere, che con grazia ed equilibrio reggevano anche carichi pesanti, ed a questo difficile trasporto, venivano iniziate in tenera età: Una volta giunti a destinazione, i fasci venivano sottoposti all’ immersione in acqua, a battitura con un mattarello di legno, e solo successivamente intrecciate varie volte fino ad assumere l’aspetto di corda spessa e resistentissima.
Carolina amava la sua famiglia e, nonostante i mezzi quanto mai scarsi, non si arrendeva mai, ed a quel suo marito, silenzioso e burbero, ripeteva sempre che sarebbero arrivati tempi migliori, ma che adesso bisognava lavorare, e tanto, anche perché era quasi il momento di preparare il corredo alle ragazze. E Nicola, questo era il suo nome, diceva spesso che una donna in casa era difficile da combattere, ma con quattro, quante ne aveva lui, non c’era scampo. Eppure era orgoglioso delle sue magnifiche donne, lavoratrici e serie, ma in special modo adorava la piccola Italia, con i capelli neri e ricci e gli occhi verde muschio proprio come i suoi. Non parlava molto Nicola, taciturno come tutti i pescatori, l’eterna sigaretta penzoloni all’angolo della bocca, ma con un cuore grande come una casa. Soprattutto adorava Carolina, la piccola, minuta Carolina, che gli era andata in sposa dopo essere rimasta prematuramente orfana di padre. Anche lui era un pescatore, ma il mare spesso era avaro, e tirare su la famiglia in maniera dignitosa era impresa quanto mai ardua per quei tempi. Ed Antonio intervallava le uscite per la pesca con quelle per il trasporto delle persone. Difatti le donne che lavoravano i “libani” erano spesso in competizione fra loro per accaparrarsi la migliore “tagliamani” e non esitavano ad inoltrarsi in zone sempre più impervie pur di realizzare una giornata fruttuosa.
Da un po’ di tempo, qualcuna aveva cominciato a farsi trasportare lungo la costa via mare, raggiungendo così luoghi inaccessibili da terra e per questo poco sfruttate. Antonio si prestava spesso a questi trasporti, primo perché era generoso di natura, quindi quando non era impegnato a pescare volentieri aiutava queste ardimentose e laboriose donne come le sue, poi perché al ritorno queste gli regalavano le uova fresche, qualche insalata, qualcuna anche un pezzetto di ricotta di una capra, ostinata come loro stesse, abbarbicata su un sentiero arido alla ricerca di cibo. Ad Antonio quello stesso cibo consentiva di variare l’alimentazione delle sue figliole, che con gran festa attendevano il ritorno di quel loro padre, rude e silenzioso, che le chiamava con un gran fischio dalla barca, ed a cui loro andavano incontro per scaricare quelle cassette piene di creature lucide e guizzanti, con le alghe inframmezzate che profumavano di mare… Poi sollevavano le cassette e mantenendole in equilibrio sulla testa, salivano graziosamente le scale, in processione, le portavano su al paese per vendere quella argentea meraviglia.
Una notte di maggio, sul far dell’alba, insieme al suo amico Matteo, Antonio caricò su tre donne, per un viaggio mattutino alla ricerca di un’erba migliore. Erano le tre di una mattinata fresca; aveva piovuto durante la notte, solo adesso la luna sembrava far capolino dalle nuvole ancora nere. I remi scandivano la loro cadenzata nota quando aprivano l’acqua, Matteo fumava silenzioso a prora, le tre donne imbacuccate nei loro vestiti ampi, erano strette l’una all’altra nella vana ricerca di un mutuo calore. Il mare era piatto come una tavola, la luna rotonda si rifletteva splendida nell’acqua nera, di tanto in tanto qualche piccolo pesce guizzante compariva in superficie, per immergersi subito dopo nell’acqua fredda. Un silenzio irreale, come di attesa, riempiva l’aria. Finalmente giunsero a destinazione, si accostarono agli scogli nella piccola caletta. Il fondale era basso, la sabbia bianca si intravedeva alla luce della luna. Matteo balzò agilmente sugli scogli, e mentre Antonio governava la barca, aiutò a scendere le tre giovani donne. Subito dopo queste si inerpicarono per un ripido sentiero e l’una dopo l’altra, nonostante la luce della luna, scomparvero alla vista. Antonio nell’attesa si allontanò dalla riva, procedette a ritroso fino al posto che gli sembrò buono per calare la rete, dove nelle due ore di attesa che sarebbero seguite, poteva riempirsi di buon pesce che le sue figlie avrebbero venduto su al paese.
I due pescatori si stavano appisolando quando d’un tratto udirono un grido lacerante di donna, seguito da un subitaneo tonfo, poi altre urla disperate. Con rapidi colpi di remi si avvicinarono alla costa ed immediatamente si resero conto della difficile situazione. Presumibilmente a causa dell’erba bagnata una donna era scivolata in acqua e le altre due stavano lottando per issarla di nuovo sugli scogli. Man mano che procedevano i loro occhi si dilatavano dall’orrore: le due donne, nel disperato tentativo di soccorrere la prima, erano sempre più pericolosamente in bilico sulla scogliera. Il grido di avvertimento che i due marinai avrebbero voluto lanciare, rimase loro in gola, quando una dopo l’altra le due soccorritrici piombarono nell’acqua scura. Antonio e Matteo si guardarono, immediatamente presero una decisione, si tolsero le giacche consunte e si gettarono in acqua in soccorso di quelle sventurate. Le poverine infatti non sapevano nuotare ed i vestiti, lunghi e rigonfi d’acqua, già le stavano trascinando verso il fondo. Antonio era un nuotatore esperto, in due bracciate fu subito vicino alle vittime, che già annaspavano tossendo e bevendo acqua, alla ricerca di un appiglio.
In un attimo Antonio fu circondato, le donne gli si aggrapparono dappertutto come ad un angelo salvatore, egli stesso finì col lottare per stare a galla, mentre cercava di dir loro di non agitarsi, di star calme, che lui le avrebbe salvate, che non lo stringessero così alla gola, che lui stesso aveva bisogno di respirare, che lui stesso aveva bisogno di aiuto…di Matteo.. Matteo, con gli occhi dilatati dal terrore e paralizzato a pochi metri vide la tragedia consumarsi sotto i suoi occhi senza avere la minima capacità di reagire. Le tre donne, in preda al terrore, si erano avvinghiate con tutte le loro residue forze al povero Antonio, impedendogli così ogni movimento e precludendo a tutti la possibilità di trarsi in salvo. In pochi minuti ed in pochissimi metri di acqua annegarono tutti e quattro cinti in un unico, mortale abbraccio. L’ultima cosa che vide Matteo furono i capelli scarmigliati e rossi della più giovane che, come serpenti, si avvinghiavano a spirale sul collo di Antonio in una macabra danza, poi più nulla. Delle urla disperate che avevano squarciato l’ultima ora della notte, non rimaneva che un silenzio irreale, mentre da levante irrompeva l’aura della prima luce di un giorno nuovo che molti occhi non avrebbero più rivisto. La barca, non più governata era ormai alla deriva, mentre Matteo, ormai solo e disperato, risaliva quella impervia china alla ricerca di una via d’uscita e di una pace che non avrebbe trovato mai più. Infatti, dopo un sommario e smozzicato racconto alle prime donne che lo incrociarono più tardi, sconvolto e tremante di freddo e di paura sulla china di quelle coste, nessuno lo vide più.
Si perse nella notte, chi disse che per il rimorso di non aver mosso un dito per aiutare le donne ed il suo amico, si fosse impiccato, chi disse che era emigrato in Argentina da certi suoi parenti, sta di fatto che sparì dalla vita del paese, e nessuno ne seppe più nulla. Da questa immensa perdita Carolina non si riprese facilmente. Sua madre, giovane vedova, aveva dovuto seriamente rimboccarsi le maniche. Continuava a lavorare alle corde vegetali, ma insieme a sua sorella Mariuccia decise anche di diventare panettiera. Nessuno, prima di loro, aveva tentato questa attività: tutti compravano il pane su al paese, ma, non potendo salirvi molto spesso, erano costretti a consumarlo raffermo. Fu così che il forno di casa divenne quello della comunità e con esso la madre di Carolina sfamò, oltre che le bocche della sua famiglia, anche quelle del piccolo borgo. Ogni volta che la fanciulla spezzava un pane e ne annusava il profumo, non riusciva a non pensare a suo padre, al coltello che estraeva dalla profonda tasca dei suoi consunti calzoni, ed il segno di croce con cui lo segnava prima di tagliarlo era l’identico gesto che aveva visto fare tante volte a lui quando era ancora lì, seduto a tavola con loro.
Qualche anno più tardi la madre di Carolina e sua sorella per arrotondare l’ancor magro bilancio familiare, decisero di subaffittare d’estate le stanze che abitavano e, con i pochi risparmi che avevano faticosamente raggranellato, costruire una modesta abitazione nella parte più alta del paese, la più distante dal porto. Il proprietario del terreno, quanto mai generoso, consentì loro di disporne a piacimento e gratuitamente. Gli operai addetti alla realizzazione dell’opera, coadiuvati da esse stesse, non furono altrettanto onesti verso le due donne sole: arraffarono il denaro e fuggirono senza completarla, sicché la loro casa rimase senza tetto. Fu un ulteriore periodo di difficoltà, ma l’opera indefessa delle due sorelle non conobbe mai tregua e finalmente la famiglia di Carolina poté andare ad abitarvi. La giovane tuttavia non rimase lì sola a lungo, perché il buon Nicola,certo della sua tempra e, perché no, anche della sua bellezza, la chiese in moglie e, vistosi accettato, la sposò. Il matrimonio fu allietato dalla nascita di tre figlie, ma Carolina non era destinata ad un futuro sereno: quando le ragazze erano poco più che adolescenti, il buono, il generoso Nicola si ammalò di polmonite e, curato in ritardo ed inappropriatamente, morì a meno di quarant’anni. Dopo pochi mesi, vittima anch’essa di stenti e di privazioni, moriva anche la madre. Carolina, giovanissima e con tre figlie da mantenere era del tutto sola. Ancora una volta si dette da fare e, con l’antico mestiere ereditato da sua madre ed ancor prima da sua nonna cercò di mantenere tutti dignitosamente. Ad un certo punto però le figlie, già in età da marito, non si vollero più adattare alla vita di sacrifici cui erano sottoposte. Scrissero pertanto ad un loro zio che viveva in Brasile, anche agiatamente, per farsi soccorrere. Inaspettatamente lo zio non solo rispose alle nipoti, ma tornò anche al paese per portarle tutte in America. Tutto sembrava dovesse andare nel migliore dei modi, ma quando fu proposto a Carolina di vendere la casa, con il compratore già individuato, la donna ne fu sconvolta.
Sarebbe andata nella lontana America per rendere felici le figlie nella speranza di un futuro migliore per tutti, certo anche per ricongiungersi a sua sorella nel frattempo maritata, ma rompere completamente con il passato, quello era troppo. La sua casa era stata una conquista per Carolina, sapeva quanto sangue e sudore era costata, ed era per lei una cosa viva come le sue figlie. Lì poi era morto il suo amato Nicola, lì era spirata la sua povera mamma. Quando la notte, insonne girava per casa sentiva i loro respiri, il fischio di suo marito di quando la chiamava dai piedi della scalinata, l’odore del suo tabacco, il bicchiere pieno a metà del suo vino sulla tavola ed il rantolo fioco di quando era spirato, e tutto il suo essere si ribellava. Come poteva abbandonare tutto questo in mani estranee? Era come abbandonare definitivamente i suoi cari, era come chiuderli due volte in una tomba. Carolina, ostinata, disse di no, si oppose con tutte le sue forze a quel cognato che voleva obbligarla. “Se non si fossero trovate bene in America?”, “Se l’aria non avesse loro giovato?”, “Se la piccola Italia, che già partiva a malincuore avesse voluto ritornare in Italia?”. Alla fine la spuntò, il cognato cedette, ma i rapporti si fecero così tesi che, benché la portò con sé insieme alle sue figlie, di fatto le impedì di abbracciare perfino la sorella una volta giunta a destinazione ritenendola indegna di farlo. Cominciò così un’altra via Crucis per Carolina, tollerata in una casa dove era più prigioniera che ospite, fino a quando consigliata da una intraprendente donna napoletana, fuggì via e trovò un’altra sistemazione.
Le figlie tuttavia erano rimaste ospiti ed ostaggio a casa dello zio, e fu soltanto grazie all’intervento del console italiano che Carolina poté ricongiungersi alla sua famiglia. A questo punto però si riproponeva l’antico dilemma del procurarsi da vivere, ma il capofamiglia non era donna da lasciarsi abbattere. Combattiva in ogni fibra del suo essere, non si dava mai per vinta, specie quando era in gioco il futuro della sua famiglia. Cominciarono così un lavoro del tutto nuovo: impararono a cucire le tomaie delle scarpe. Diventarono una piccola industria a conduzione familiare dove ognuna aveva il suo compito e la sua responsabilità. Fu anche questo un periodo di duro lavoro, ma anche di discreti guadagni, e quando la piccola Italia andava a consegnare il pesante fagotto con le scarpe, tornava sempre con un bel gruzzoletto. Molto spesso invece Italia, più piccola ma più avveduta di tutte, si fermava lungo la strada in un negozio di biancheria e con una parte dei soldi guadagnati comprava tre pezzi di corredo, identici, per ognuna delle tre sorelle. Quando un giorno la macchina per cucire si ruppe, fu sempre Italia a chiamare un ragazzo italiano che abitava nella stessa strada e che era abile nei lavori di riparazione. Biagio, così si chiamava, riparò il guasto, ma si innamorò di Italia e quando tre anni dopo si sposarono, lei coronò il suo sogno di rientrare in Italia. Non fu una scelta così felice come sembrava: suo marito, sarto, non aveva la possibilità di lavorare perché le condizioni economiche del paese non erano molto diverse da quando loro erano partite. Nel frattempo poi era nato anche un bimbo e Italia dovette riprendere il lavoro delle sue ave: confezionare i “libani”.
Lei non si lamentava di nulla, lavoratrice instancabile come sua madre, partiva all’alba e non si fermava mai fino al tramonto. Tuttavia la sua salute non eccezionale in breve tempo fu compromessa e lei rimase a lungo a letto ammalata. Fu così che i familiari del marito presi dalle loro faccende, e stanchi o impossibilitati di badare a lei e al piccolo, richiamarono sua madre in Italia. Per la donna, non più giovane, fu emozionantissimo rientrare nella sua amata terra, ed ancor più nella sua casa. Quella dimora dove nulla era cambiato, dove il ricordo dei suoi cari morti ancora l’attendevano come se il tempo non fosse mai trascorso. Carolina dedicò i rimanenti anni della sua vita alla figlia che suo marito aveva amato più d’ogni altra ed a quel piccolo nipote che, attaccato prepotentemente alla vita, era sopravvissuto alla malattia della madre, ad un allattamento mercenario, alla relativa mancanza di cure. Adesso c’era di nuovo lei, Carolina, piena di energia e di forza a dispetto dell’età che continuava ad avanzare. Fu indispensabile a risolvere i problemi di tutti. Poi una mattina di primavera cominciò ad accusare i primi disturbi. Non volle darci peso perché c’era tanto da lavorare, e poi lei era indistruttibile come l’acciaio, ed andò a raccogliere l’erba per i “libani”. Da quel giorno in poi tutte le mattine Carolina si alzava con un po’ di forza in meno, fino a che alla fine dell’estate, non riuscì più ad alzarsi dal letto. La malattia l’aveva consumata lentamente, a nulla valevano le medicine che riuscivano a somministrarle, né l’amore della figlia e le cure che le elargiva senza sosta.
Carolina girava lo sguardo alla finestra e guardava il mare di settembre, liscio come l’olio, e pensava a suo padre, a quando rientrava nel porticciolo con il pesce appena pescato e lei cercava con lo sguardo i suoi occhi buoni. Pensava “Fra poco ti riabbraccerò, ti racconterò di quanto mi sei mancato in tutti questi anni, ti dirò di quanto, anche nel dolore, sono stata fiera di te che per aiutare tre donne come le tue figlie non sei più tornato a casa…” Poi guardava il cuscino accanto al suo, nessuna impronta di una testa da tanti anni ormai, e ripensava a Nicola, l’unico uomo della sua vita ed all’emozione che avrebbe provato nel rivederlo e poi ancora a sua madre…Solo così il pensiero di lasciare sua figlia e le altre lì in America, il suo nipotino bruno e l’altra piccolina che nel frattempo era nata, le sembrava meno triste. Qualche volta,verso la fine, i volti si confondevano l’uno con l’altro fino a diventare una sola persona, perché Carolina li aveva amati tutti di un unico, sconfinato amore. Se ne andò una sera di fine ottobre, l’ultimo tramonto rosseggiava nel cielo, mentre lei guardava il Crocifisso appeso alla parete di fronte. Nell’ultimo respiro di agonia disse soltanto “Datemi, datemi quel…Giuseppe”. Una mano pietosa staccò il Crocifisso e glielo pose tra le mani già incrociate sul petto, era un piccolo, fragile corpicino in un enorme letto bianco.
La piccola, grande, intrepida Carolina, dopo una vita di lotte, stenti, sacrifici per la sua famiglia, esalava l’ultimo respiro per potere, alfine, riposare in pace.
Ho risentito l’odore dei “tagliamani” che, per divenire libbani, dovevano lasciare l’anima verde sulla mazzoccola resa liscia dall’uso e dal tempo; il profumo del mare all’alba e l’umore, che ogni lancia di legno, rilascia dalla sentina; l’essenzialità di gusto e di sussistenza che davano le panelle enormi di una volta; la forza e l’alterigia (mai davvero eccessiva, quest’ultima) delle donne di una società di impronta matriarcale; la sofferenza dell’emigrazione e la nuova, imprevista, sofferenza del rimpatrio…insomma, tutto riconduce ad una sostanza, all’essenza che è stata l’esperienza del vivere, a ciò che non sempre prevede la letteratura: la realtà viva e pulsante. Carissima, queste storie, soprattutto raccontate così come le racconti tu, trovano, credo, un buon ritiro in questo fondaco e contribuiscono notevolmente alla sua finalità. Un abbraccio.