Museo d’ombre

 

 

 

Approfittando della complicità delle feste natalizie, mi sono piacevolmente imbattuto, dopo almeno una dozzina d’anni, nell’istruttiva e musicale lettura di Gesualdo Bufalino a tutti noto per le sue doti di scrittore, ma anche come arguto aforista e notevole poeta.Vincitore del Premio Strega nel 1988 con il romanzo di ambientazione duo siciliana “Le menzogne della notte”, e noto per la sua amicizia con un altro grande siciliano, Leonardo Sciascia, Bufalino fu un instancabile ricercatore e studioso di vasta cultura, qualità che lo portarono a scandagliare ogni anfratto della esistenza umana e a gettare il suo sguardo acuto sulle cose del mondo.

Dalla raccolta di opere edita dai Classici Bompiani, introdotta e curata da Maria Corti e Francesca Caputo, ho tratto qualche brano che vorrei proporre ai visitatori di questo nostro costruendo Museo di Civiltà. E quale, tra i tanti libri della raccolta, non può che fare al caso nostro se non “Museo d’ombre” edito nel 1982?In questo libro l’epigrafe aureliana è già monito per chi si appresta a calcarne con l’occhio le pagine che risuonano di antichi usi, costumi, mestieri nella loro integrità paesana, nella immediatezza del ricordo. Ma passiamo a citare l’autore già a partire dalla sua stessa introduzione:

Anni fa, non so più quando, ma dovette essere prima che i poeti cominciassero a piangere sulla morte delle lucciole, mi accorsi, uscendo di casa una mattina, ch’era tempo di tornare a far pace col mio paese.”

Con Museo d’ombre Bufalino ritrova quella “complicità di sangue col paese” che riassumeva per lui “ ogni concepibile luogo di intimità collettiva: mercato, arengo, chiesa, teatro, camposanto…”, complicità che gli anni giovanili, per una serie di motivi, gli avevano fatto cadere dal cuore, trovandosi a rincorrere, un po’ come di moda allora, il mito della metropoli e il suo lento e mortale abbraccio per mezzo del suo potere omologante. Il paese visto dalla città non rimane che nel fondo dell’anima come “un evaporato sentore, non più che l’ombra di una leggenda. Così, attraverso gli spazi perviene fino a nostri occhi la luce-fantasma di una stella già spenta…” . Qui si ricalca un concetto a noi ben caro e che, si spera, ben passi attraverso queste pagine museali: il rischio che quanto oggi osserviamo dei resti del nostro luogo d’origine (di ogni nostra origine), non sia già quella luce stellare fantasma e che a noi resti ancora qualcosa, una favella almeno, per ravvivare un fuoco che s’affievolisce inesorabile.

E’ lo stesso Bufalino, però, a portarci confortanti parole quando scrive: “Ma se nei lunghi anni che ho vissuti finora, ho fatto così brevi viaggi e soggiorni; se ho dormito non molto più di mille notti fuori del medesimo letto; non mi sento perciò di lodare nessuna ostrica malavogliesca: a star fermi o a camminare ciascuno ha avuto le sue ragioni. Solo che a me, sedentario, è parso sempre di potermi senza disagio intitolare insieme cittadino di Dappertutto e di un piccolo borgo dal nome sdrucciolo, fra gl’ Iblei e il mare. Tanto ho creduto facile poter accordare, all’interno di me, la musica famosa e un poco paurosa dell’universo con quella di uno zampillo di fontana al centro di una piccola piazza mediterranea. ” E’ questa la “santità” del paese perché è l’unica vera patria capace di restituire al singolo “una faccia, dare un sigillo unico” ad una esistenza. Il solo posto dove è possibile inveterate e sancire l’obbedienza del genere umano alle leggi di natura, alle sue economie, in cui non esiste morte ma ciascuno è parte attiva di un qualche progetto e il perire è il solo trasformarsi in altro, innocente e naturale provvidenza. Il tutto macinato, per dirla con Bufalino, dal tempo: che macina piano ma fino.

Oggi, invece, il tempo batte un ritmo non consone, non intonato con una legge cui anche l’uomo dovrebbe sottostare tant’è che “Non si mangia più un cibo o un’idea per nutrirsene e farne buon sangue, ma per vomitare e ricominciare…febbre del consumo, la chiamiamo…e ci comanda, pena lo scandalo. Ora a me non va di spendere il respiro in ginnastiche così vane. Meglio usarlo altrimenti, nei disarmati modi che so, perorando contro il plurimo scempio della natura, dei manufatti, dei linguaggi e costumi, che si consuma senza tregua sotto i nostri occhi…e questo io dico non per soverchia passione del vecchio; né per difendere simulacri di oppressione, ingiustizia e fatica, che è bellissimo siano stati sconfitti dalla storia; ma per scongiurare, finché si può, le chirurgie più ciniche e cieche.” Si può trattare la morte di una civiltà con superiore supponenza, con sprezzo derivante dalle superiori “sorti e progressive” e tanto insistente può essere il coro dei plaudenti da rendere, chi si ostinasse a reclamare una ragione, rinfacciabile di “secoli di carestie e di malarie: come se il DDT bastasse ad assolvere l’urlo dannato dei jet o l’assassinio degli alberi sulle colline. Mentre ciò che si chiede è solo di lasciare resistere, quanto dura almeno la vita di un uomo, quel prezioso mastice di confidenze e solidali sicurezze della vista e del cuore, che già seppe rendere abitabile in qualche modo il pianeta.” Tutto questo progredire sociale, civile, culturale, se così possiamo sarcasticamente definire, incombe più che minaccioso sui nostri paesi, anzi, ne ha già iniziato a sbranarne le carni in uno strazio che un giorno, pure avrà fine. Per questo, ogni opera, anche questa nostra piccola stampella, “serviranno domani, depurate dalle senili tossine della nostalgia, a chi nella polvere degli scaffali non cerca solo i testi senza tempo dei poeti supremi, ma fiuta il calore residuo delle esistenze che furono, le pedate furtive della storia minore, quasi sempre più maestra di ogni altra. Poiché storia non è solo quella conservata negli annali del sangue e della forza; bensì quella legata al luogo, all’ambiente fisico e umano in cui ciascuno di noi è stato educato. Storia è il gesto con cui s’intride il pane nella madia o si falcia il grano; storia è un nomignolo fulmineo, un proverbio cattivante, l’inflessione di una voce, la sagoma di una tegola, il ritornello di una canzone; tutto ciò, infine, che reca lo stemma del lavoro e della fantasia dell’uomo. Materia che deperisce prima d’ogni altra e di cui nessuno, quasi, si cura di custodire i reperti.”

Non ci sono parole da aggiungere, almeno non le mie. Solo aggiungerei quest’ultima epigrafe all’elenco dei mestieri citati nel Museo d’ombre e che riporto per amore di lingua, quella siciliana, così affine al nostro caro marateoto.

Una civiltà è specialmente la ricchezza dei suoi mestieri. Ognuno dei quali nella propria cellula chiusa s’inventa mimiche, abbigliamenti, linguaggi, contegni, aneddoti di commozione o di scherzo, una pedagogia, una morale. Questo erano le botteghe fino a poco fa: coaguli di cultura sufficienti a se stessi, regni dove il re si chiamava –mastro- , e cioè maestro di martello, d’ascia, di trincetto, di tornio… . Luoghi storici e santuari di cui nessuna Encyclopédie raccoglierà più ormai né le tecniche in disuso né il nobile odore di falansterio.

Più effimere ancora le attività vagabonde, esercitate all’aria aperta col consenso del sole, della pioggia, del vento: mestieri da picaro; immagini, per un bambino che so, di invidiata felicità.

 

‘U Lampiunaru – il lampionaio

‘ U Luppinaru – venditore di lupini

‘U Stagnataru – lo stagnino

‘U paracquaru conzapiatti – riparatore di ombrelli e piatti

‘U Cirnituri – il vagliatore

‘U Ferrasecchi – maniscalco

‘U Caliaru – venditore di semi

‘A Fimmina re sanguetti – la donna delle sanguisughe

‘U Pitturi decoraturi – pittore decoratore

‘A Pilucchera – la parrucchiera

‘U Fumiraru – venditore di letame

L’Acqualuoru – acquaiolo

L’Ammola fuoffici e cutedda – arrotino

‘U Musicanti – suonatore di serenate

‘A Tincitura – la tintora

‘U Patriarca – il patriarca

‘U Gnuri – il cocchiere

‘U Scucciarinu – lo scorticatore

L’Argintieri – l’argentiere

‘U Pirriaturi – lo spaccapietre

‘U Vastasi – il facchino

‘U Prufeta ro tiempu e maluttiempo – indovino del buono e cattivo tempo

‘U Carrittieri – il carrettiere

‘U Pitturi ri carretta – pittore di carri

‘U Libbraru ambulanti – libraio ambulante

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