Cenzino

 “Ma cu a dittu ca a Santuiannu fa caudu?” Cosi solevamo dirci, io e Cenzino(nella foto l’ultimo in piedi a destra), quando l’ennesima ondata ci copriva e noi dovevamo agguantarci agli scogli per non essere trascinati in mare compresa la canna che, tenacemente, serravamo tra le mani. Solo se il mare era abbastanza mosso a Santoianni era possibile pescare le occhiate grandi e noi, quando le altre barche rientravano per il mare mosso, uscivamo, ormeggiavamo la barca nella cala di terra e,pieni di stroglie, dovevamo fare quasi il periplo dell’isola per raggiungere la posta delle occhiate che si trovava nella parte a ponente della punta di fuori.

Le stroglie erano le canne, i secchi con il richiamo, la busta con l’esca, le bottiglie dell’acqua, la busta con i panini e la scatola con tutti gli attrezzi da pesca. Dovevamo indossare i pantaloni  lunghi e le calze per sopravvivere ai morsi dei moscerini e delle pulci che,a migliaia, coloravano le nostre gambe di nero.

Una volta raggiuntoli posto, dopo aver depositato tutto l’armamentario in una conca lontana dagli spruzzi, procedevamo a “camiare” buttare cioè il richiamo (una miscela di pane, formaggio, pomodori, crusca e scorze di pancarré) a mare. La mollica del pancarré era invece la pasta che usavamo come esca speciale per insidiare le occhiate. Mentre la pastura, gettata in mare, faceva il suo effetto di richiamo, noi completavamo i preparativi  armando la canna con la massima accuratezza in modo da scongiurare, per quanto possibile, eventuali slamate che avrebbero spaventato il branco di occhiate tanto che queste non avrebbero più abboccato per parecchio tempo.

 Con la stessa cura con cui avevamo armato la canna cercavamo il posto migliore per iniziare la pescata, tenendo conto del pericolo che correvamo nel caso fossimo stati investiti da un’ondata in quanto gli scogli dell’isola sono appuntiti e taglienti. Bisognava gettare la l’amo nelle turbolenze delle onde perché solo li le occhiate, perdendo la loro proverbiale diffidenza, abboccavano strattonando violentemente la canna.

 Era un’emozione continua, tra pesci che abboccavano, marosi che ti spruzzavano in faccia e il tentativo di indirizzare l’occhiata abboccata verso la conca, alle nostre spalle, in modo da slamarle e riporla nel secchio. Spesso ci aiutavamo a vicenda per guadinare  le occhiate più grosse, per non rischiare di perderle, anche se questa operazione ci risultava fastidiosa in quanto ci distoglieva momentaneamente dalla pesca cosi cercavamo di cavarcela da soli. Dopo una mezz’ora di pesca concitata, le occhiate sparivano dandoci cosi modo di fare la “posta”, lasciavamo cioè che l’esca raggiungesse il fondo in modo che abboccasse qualche sarago,una salpa e, più raramente, un cefalo. Quando anche questo tipo di pesca non produceva più frutti, ci concedevamo una pausa. Guardavamo il pesce pescato, facevamo qualche commento e, subito dopo, prendevamo il panino con la mortadella mangiandolo con grande goduria, io bevevo la birra e Cenzino l’acqua minerale fredda. Finito il rito del panino, ributtavamo in mare altro richiamo (in portatolo camiatoio) e, mentre questo provvedeva a riportare le occhiate in superficie, noi rifacevamo le lenze danneggiate nel corso della prima pescata.

Quando ricominciavamo a pescare riprendevano le scariche di adrenalina. Qualche volta abboccavano due occhiate contemporaneamente, ed era una bella lotta per riportale in secco, spesso una si slamava con grande disappunto e relative imprecazioni sia mie che di Cenzino. A fine pescata il secchio era sempre pieno e la sfacchinata per raggiungere la barca sempre pi grande. Talvolta capitavamo sull’isola quando i gabbiani vi avevano nidificato per cui tutta la pescata erra accompagnata da un concerto di lamenti e se,per caso, passavamo vicino ad un nido, le madri dei piccioni ci attaccavano sfiorandoci a grande velocità. Arrivati al porto andavamo direttamente davanti all’officina di Cenzino per dividerci il pescato secondo la tecnica di: uno a me e uno a te.Poi lui lo regalava ai suoi amici e io ai miei , uno in particolare Romano che era sempre presente nella spartizione.

Per tanti anni è durato questo pescare con Cenzino in punti della costa considerati estremi per la difficoltà a raggiungerli, tra questi Aquafredda e Valle dell’acqua nei pressi di Castrocucco fino al giorno che un male incurabile ha distrutto la resistenza di Cenzino rendendo vani interventi chirurgici e terapie. Quando passo per questi posti, provo una stretta al cuore, mille pensieri e mille ricordi mi attanagliano la gola, quante belle storie vissute insieme, quanti discorsi fatti pescando e quanti lunghi silenzi ci facevano compagnia. Non ho ancora travato il coraggio o la voglia di riandare in quei posti né solo né con altri, consapevole che nulla potrebbe essere come prima, ma quando ci passo mi pare ancora di vetderti, con la canna in mano, imprecare contro quell’occhiatona che ti aveva fregato e risentiti ancora una volta dire “ ma cu a dittu ca a Santuiannu fa caudu?

Il mare ha di questi miraggi.(nella sezione poesie quella dedicata a Cenzino da Franco Chiappetta)

No votes yet.
Please wait...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *