‘I Tunni

Da sempre, nel percorso attraverso il Mediterraneo impresso nel loro istinto, i tonni ci hanno onorato della loro visita soffermandosi per qualche giorno lungo la costa di Maratea, nello specchio d’acqua che, da poche decine di metri dalla riva, va fino a qualche miglio al largo.Tunnu, tunnacchiu, alalonga, zangùso, allittiràtu, pisantùni, questi sono i nomi con cui distinguiamo le varie specie, secondo dimensione e qualità. Si soffermano nel tratto di mare della nostra costa richiamati dalla presenza delle alici, delle sarde e di altre specie di pesci azzurri che costituiscono l’elemento primario della loro catena alimentare.
 
Quando li scovano ed hanno fame, si avventano nel branco in maniera spettacolare. Le alici si concentrano sulla superficie dell’acqua a forma di palla e loro vi saltano dentro con la bocca aperta. Al banchetto partecipano spesso le gafie (gabbiani), i patanti, i zifari e i summuzzarelli (martin pescatore), tutti uccelli che seguono il branco di tonni sicuri di banchettare più volte al giorno. In questo scenario di predazione non poteva mancare l’uomo, che armato di guadino e lenzette segue sia il volo degli uccelli che l’effetto della mangianza dei tonni che, saltando sull’acqua, rivelano la loro presenza. I pesci azzurri sono così spaventati durante l’assalto dei tonni che non si muovono neanche quando vedono la barca che si avvicina ad essi, anzi si mettono sotto di essa con la speranza di ripararsi mentre invece vengono guadinati e finiscono in gran parte nel retino.
 
Una volta messo a bordo il retino pieno di alici, o simili, inizia la pescata dei tonni. Si innesca all’amo di una lenza un’alice ancora viva e si lancia qualche metro distante dalla barca. Un attimo dopo, questa viene ferrata da un tonno e bisogna essere lesti nell’impedire che questi diriga la testa verso il fondo e, dando qualche vigorosa pinnata, riesca a raggiungere grandi velocità, tali che l’effetto sulle mani che tentano il recupero sia ben evidente. Viceversa, se si tira la lenza appena che ha abboccato, questi si lascia recuperare senza troppa fatica. Una volta che è sulla barca diventa un’impresa slamarlo perché si divincola e sbatte spruzzando sangue da tutte le parti. Più si è lesti in questo frangente più aumentano le catture perché il tutto dura pochi minuti; ad un tratto le alici rinsaviscono e affondano scomparendo e, con esse, anche i tonni si dileguano.
 
Ci si ritrova allora con la barca piena di pesci che ancora vibrano le ultime energie vitali, sangue spruzzato da tutte le parti, lenze imparruccate e un fremito addosso che fa tremare le braccia: è l’emozione che questo genere di pesca provoca. Poco dopo si è pronti di nuovo per andare alla ricerca di altri minàli, questo è il termine che usiamo per definire i branchi di tonni. Questo tipo di pesca è spettacolare perché coinvolge diverse specie in branchi: i tonni, così come le alici, i gabbiani e come le barche dei pescatori. Sicché, quando i tonni emergono per mangiare le alici, tutti i branchi si portano in un sol punto e lì succede un caos tremendo: i tonni e i gabbiani a caccia di alici e gli uomini, tra loro in competizione, a chi arriva prima a prendere possesso dell’ intero bottino. I secondi devono poi confidare sulla magnanimità del “vincitore” per ottenere una parte della preda; ma ciò non sempre avviene.

Tutto questo faceva parte dell’ordine naturale dell’ecosistema, alla fine non c’erano vincitori, né vinti. Di alici ( miliardi ) ne restavano tante, di tonni ( centinaia di migliaia ) altrettanto. Gli uccelli ne uscivano sazi, i pescatori con un buon guadagno e i dilettanti divertiti e con tante storie da raccontare. A turbare e sconvolgere questo ordine di cose ci ha pensato ancora una volta l’uomo con la sua avidità. Alla fine degli anni ’70 l’Italia fece un accordo con i Giapponesi: in cambio di transistors diede loro il permesso di pescare i tonni nel nostro Mar Tirreno. Questi si stabilirono a Vibo Valentia con delle navi che avevano a bordo anche la possibilità di inscatolare il pescato e avevano al seguito anche un aereo per rintracciare i branchi. Pescavano prevalentemente i tonni giganti, prima con un sistema che utilizzava la corrente elettrica per ammazzarli, poi con delle reti volanti che non davano scampo.In questo periodo quasi tutte le industrie italiane che inscatolavano il tonno lo compravano da loro già pronto: sulla scatoletta dovevano incollare solo la loro etichetta.

Mentre il nostro pescato si stimava in Chilogrammi, al massimo qualche quintale, quello dei giapponesi si stimava in migliaia di quintali. Dopo breve tempo cominciava a notarsi il depauperamento di questa specie e l’aumento dei pesci azzurri che ebbe come conseguenza l’aumento dei cinciorri , barche attrezzate per la loro pesca. Non ci fu bisogno dell’indovino per capire che si stava andando a distruggere un equilibrio che durava da secoli e, per accelerare ancora di più tale processo, si fece uso anche della dinamite che diede il colpo finale.

In un momento di lucidità il governo non rinnovò il contratto ai Giapponesi che dovettero andarsene. Ma ormai avevano fatto scuola. Così comparve la flotta Consiglio, un armatore salernitano che con cinque barche attrezzatissime per la pesca del tonno gigante, imperversò nel Mediterraneo. Quando una di queste barche avvistava il branco, allertava il resto della flotta che si concentrava sul luogo ed iniziava così la guerra tra predatori e prede. La Alfonso, la Valeria e la Santa Rita erano i nomi delle barche che ancora ricordo. Un giorno la Santa Rita circuì, al largo di Scalea, un grosso branco di tonni che pesavano in media oltre due quintali l’uno. Il branco era grande e la rete li cinse tutti.

Ben presto però, si resero conto che pur essendo la rete resistente, non avrebbe retto alle sollecitazioni dei tonni. Chiamarono in soccorso la Valeria, la barca più grande, che calò in acqua anche la sua rete, cingendo anche la Santa Rita. Con la rete raddoppiata si sentirono più sicuri e,” dicunt “, per evitare che comunque i tonni potessero sfondarla, non pensarono di meglio che far esplodere, nell’immenso sacco, delle cariche di dinamite a concludere la mattanza. Nel tentativo poi di tirare la rete con il verricello idraulico, si resero conto che non ce l’avrebbero mai fatta.

Il verricello si distorse facendo piegare tutte e due le barche su un fianco. Dovettero mollare la rete e far posare sul fondo quell’immenso peso. Fecero poi arrivare con urgenza dei sommozzatori i quali si calarono nella rete per legare i tonni, quattro o cinque alla volta per le code, e li facevano issare a bordo coi verricelli. Questa manovra di recupero durava da giorni ed io mi trovavo al Porto quando arrivò un furgoncino frigorifero: era carico di viveri destinati ai due pescherecci. I conduttori chiesero se ci fosse qualcuno disposto ad accompagnarli a bordo della Valeria per scaricare la merce. Antonio Possidente (‘a Scienza) si offrì, con la sua barca, di accompagnarli ed io e Cacciaturu ci imbarcammo con lui. Caricammo un sacco di viveri e partimmo dopo aver fatto il pieno di gasolio. Parlando con quelle persone capimmo che avevano già scaricato tremila quintali di tonni e tantissimi ce n’erano ancora, ma il tempo passava inesorabilmente e i tonni nella rete cominciavano ad andare in decomposizione. Impiegammo parecchio tempo per arrivare sul luogo di pesca perché la barca era lenta e piena di merce.

Appena arrivati, era tanta l’attesa che subito si industriarono per scaricare i viveri. Io mi soffermai a guardare le operazioni di recupero dei tonni che salivano a bordo legati per le code a quattro o cinque alla volta. Erano enormi. Passando vicino ad un verricello mi accorsi che era storto e le basi avevano ceduto sollevando parte del paiolato. Ci fermammo poco sulla Valeria perché il ritorno ci avrebbe preso tempo; il capopesca chiamò lo Scalioto e lo pagò; poi disse che ci avrebbe messo a bordo un paio di tonni ma appena ne depositarono uno la nostra barca si piegò su un fianco e dovemmo accuratamente centralizzarlo per poter navigare. Pesava oltre 400 chili e lo vendemmo ad una pescheria di Sapri. Anche il giorno seguente continuarono a recuperare tonni ma poi dovettero fare un largo taglio nella rete e lasciarli cadere sul fondo perché ormai non più commestibili.

Dicunt sempre, che qualche giorno dopo una paranza di notte scaricò altri tonni senza interiora e con dei grossi pezzi di ghiaccio nella pancia per mascherare il cattivo odore del pesce ormai in decomposizione. Ben presto questo tiro al massacro causò la quasi scomparsa dei tonni dal nostro mare e poco dopo anche le alici, che subirono lo stesso trattamento da parte dei grossi pescherecci provenienti dalla vicina Campania, scomparvero anche’esse.

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