Antonio e Mariuccia ‘i Rosa

 

 

Mariuccia i Rosa era la perpetua del Porto. Una donna bassina, con i capelli bianchissimi, sempre vestita di scuro. Me la ricordo anziana ma non invecchiò più, era sempre la stessa. Curava la Chiesa, la Canonica e accompagnava noi ragazzi al Catechismo da Carmelina che era la badante, quasi adottata, di Antonio Alfieri, il primo commerciante amalfitano che alla fine dell’ottocento aveva aperto al Porto un negozio.

Aveva la vocazione di suora di clausura ma il dovere di accudire il suo benefattore fino alla morte gli fece rimandare il suo progetto di molti anni. Progetto che portò a termine dopo la morte di Antonio Alfieri internandosi in clausura in un convento a Roma dopo aver venduto il suo negozio. Mia madre comperò da lei un comò con cinque cassettoni arrivato al porto via mare dal Cilento alla fine dell’ottocento, comò che tengo gelosamente custodito con la mia biancheria dentro che odora di pulito ma che sa di passato.

Mariuccia, Carmelina e Padre Salerno, parroco della Parrocchia del Porto, avevano in cura spirituale tutti noi ragazzi, con loro abbiamo fatto la carriera di chierichetti, prima Fiamma Bianca, poi Fiamma Verde ed infine Fiamma Rossa. In genere la carriera di chierichetto finiva col Sacramento della Cresima, ma non sempre.

Mariuccia i Rosa era una presenza costante e silenziosa nella Chiesa, occupava sempre il primo posto della fila di destra e restava incantata nell’ascoltare le prediche che facevano i Missionari Oblati di Maria Immacolata che venivano in occasione delle grandi Feste religiose. Uno di questi la scandalizzò perché volle mangiare il pollo pur essendo di venerdì, affermando che per loro missionari, quando erano in missione, il digiuno del venerdì era sospeso.

Ogni tanto imbucava una lettera alla posta, era una di quelle colorate che indicavano la via aerea, diceva che scriveva a suo fratello Antonio in America.Un bel giorno ecco comparire al Porto una persona con i capelli bianchissimi e molto somigliante a Mariuccia, era proprio Antonio i Rosa.

La vita d’inverno al Porto è abbastanza triste e solitaria perché siamo in pochi quindi ogni nuovo arrivo è particolarmente gradito. Antonio di Rosa parlava una lingua italoamericana molto comprensibile ed aveva una grande voglia di raccontare sia vicende del Porto che vicende della sua vita in America, a Caracas e sull’isola Margherita, nei Caraibi. Lui aveva fatto il contrabbandiere, nel senso buono del termine, comperava la merce sull’isola che era porto franco per rivenderla a Caracas realizzando discreti guadagni. Sapeva leggere e scrivere quando è partito per l’America ed aveva fatto tanti mestieri. Aveva fatto anche una figlia con una donna venezuelana, figlia che aveva più o meno seguito pur avendo perso di vista la madre. Figlia scomparsa nel periodo di malattia di Antonio e ricomparsa quando ha ereditato la casetta, giusto il tempo però di venderla per poi scomparire di nuovo.

Anche lui non aveva fatto fortuna in America ma aveva comunque condotto una vita, fatta spesso di stenti ma che raccontava senza particolari rimpianti. Si era integrato bene in America, aveva buoni amici coi quali si divertiva tanto.Al Porto ci invitava spesso a mangiare la Paella Valenziana una pietanza che mischiava riso, pesci, gamberetti, piselli, carne di pollo e carne di maiale; a me non piaceva ma ci andavo lo stesso con piacere perché la serata scorreva tra racconti americani che avevano come protagonisti donne vogliose e uomini violenti: “Là te màtano” soleva dire spesso perché, avendo fatto il barista spesso si trovava coinvolto in risse con persone ubriache.

Soffriva di gotta, l’acido urico gli faceva gonfiare le caviglie e spesso era costretto a fare ferree diete per un periodo di tempo, ma appena le sue condizioni di salute miglioravano ecco che ci invitava di nuovo a casa per mangiare, spesso giocavamo anche a carte ma sempre intercalando bevute e racconti.

Anche per lui la pensione sociale fu una fonte di reddito che lo faceva stare bene e diceva che lo Stato italiano, quello che gli aveva negato da giovane, almeno glielo aveva reso da vecchio. Avendo una piccola ma garbata casetta, essendo abituato a vivere in ristrettezze anche estreme, la condizione di pensionato sociale la viveva senza alcun lamento anzi era contento.Era dotato di buona pazienza e noi ne approfittavamo per farci rimettere in ordine le lenze che immancabilmente imbrogliavamo durante le pescate.

Un malore agli intestini in poco tempo lo condusse alla morte.Anche da lui ho ricevuto lezioni di vita e lo ricordo con grande simpatia, quando lo rivedo al cimitero mi provoca un sorriso velato di tristezza.(nella sezione poesie quella dedicata a ‘nDoniu i rosa da franco chiappetta)

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