Liuni

Durante la primavera, per molti anni consecutivi, veniva al Porto, con la sua barchetta “Giovanni dalle Bande Nere“ dal vicino Scario, paesino della Campania, Liuni, un simpatico pescatore allegro e scherzoso,ubriaco quasi a tempo pieno.

La sua barchetta era semiaffondata dalle reti e dal bagaglio che si portava dietro, motorino compreso. Dormiva sotto la prua della sua barchetta, dentro un paio di coperte e viveva vendendo quel poco di pesce che riusciva a pescare. Le sue reti erano in pessime condizioni, piene di buchi e puzzolenti di pesce marcio, puzza che trasmettevano sia alla barca che agli abiti di Liuni. Conosceva tutta la gente del Porto ed era gentilissimo, quando vendeva del pesce ad un marinaio o alla sua moglie non se lo faceva pagare a costo di restare digiuno. Per questo motivo noi portaioli non gli facevamo mancare mai nulla, vino compreso. Spesso mangiavamo insieme su qualche barca ormeggiata nel porticciolo da poco costruito.

Era il periodo in cui i Colonnelli avevano fatto il colpo di stato in Grecia ed una barca, con a bordo una coppia greca, era riuscita a fuggire e, girovagando per le coste italiane era arrivata al Porto di Maratea giusto quando avevano finito sia i soldi che il carburante.

Nel suo vivere Liuni aveva avuto anche una parentesi tedesca, aveva cioè fatto l’operaio in Germania per una ditta impegnata nell’edilizia ed aveva imparato a parlare un poco di tedesco. Anche la coppia greca parlava tedesco e quindi ecco che Liuni divenne il traduttore simultaneo della donna greca. Si trasferì a bordo della loro barca che aveva appunto la cabina per gli ospiti e a questo punto il pesce che pescava lo consumava direttamente a bordo insieme ai due greci e spesso dopo aver abbondantemente bevuto cantava ad alta voce stornelli cilentani mentre i due greci allegramente ballavano.

A notte fonda la signora era spesso costretta a trascinare in cabina e coricare sia Liuni che suo marito completamente ubriachi fradici. A noi ragazzi del Porto non poteva passare inosservata una simile situazione e subito facemmo amicizia con la coppia greca la quale gentilissima, ci disse che erano onorati di ospitarci a bordo e di uscire con noi tutte le volte che volevamo. Il problema era che, essendo dei rifugiati politici non avevano nemmeno i soldi per la sopravvivenza, quindi gradivano moltissimo qualsiasi cosa noi portassimo a bordo, soprattutto cibo e carburante. Liuni divenne subito il capocerimoniere e organizzava ogni sera cene e festini. Aveva un vecchio motorino al quale aveva dato il nome di “Lucia” col quale usciva a comprare il cibo e a vendere il pesce pescato quando questo era abbondante.

Un giorno lo vedemmo tornare dalla pesca e prima di raggiungere il molo lo sentimmo cantare e, con le braccia aperte rivolte verso la montagna di San Biagio, pregare e ringraziare il Signore per la pesca miracolosa che era riuscito a fare. Veramente la barca era letteralmente piena di pesci e le reti ne contenevano ancora. Erano dei pesci spinosi, buoni solo per la frittura che noi chiamiamo “Ciauli”, comunque anche se a poco prezzo si vendevano. Liuni come in trances continuava a dire : “hoi Sambià, comu ti pozzu ringrazià, figliu roru, figliu taumaturgu, mai Giuvanni ( la barca) ha piscatu tanti pisci”.

Abbiamo recuperato delle cassettine dentro le quali abbiamo sistemato una trentina di chili di ciaule che Liuni si ha caricato sul motorino Lucia ed è andato a vendere Scario, suo paese d’origine, dove aveva dei clienti a cui vendeva regolarmente il pesce. Noi intanto abbiamo ripulito le reti dal pesce restante e un po’ ne abbiamo regalato, un po’ venduto ed un po’ ce lo siamo presi per le nostre famiglie. I greci li abbiamo letteralmente riempiti di pesce ma purtroppo sulla barca non avevano la possibilità di tenere il frigo acceso quindi non sapevano cosa farne.

Al ritorno Liuni portò le cassette vuote ed un boccione di dieci litri di vino e ci disse che aveva venduto tutto il pesce. Mangiammo frittura di pesce per tre giorni, a colazione, pranzo e cena; al quarto giorno Liuni aveva aggiunto all’ultima insalatiera piena di pesce fritto della menta e dell’aceto facendo così una profumatissima “Scapece” che ai greci piacque tantissimo. Spesso la sera, dopo cena, restavamo sulla barca ad ascoltare le vicissitudini che avevano condotto Frau, così lo chiamavamo, e la sua donna fino a Maratea ma non riuscivamo a capire bene perché lui parlava un pessimo tedesco e per di più Liuni traduceva ancora peggio.

Perdevamo un sacco di tempo nel cercare di capire e spesso stanchi, nel mezzo della storia, lasciavamo perdere. Restarono al porto per una intera invernata ospitando anche Liuni, poi un giorno conobbero una persona di un paese vicino che cominciò a corteggiare la donna, a fargli dei regali e a portarsela in giro.

Il compagno aveva capito e cominciò ad ubriacarsi ancora di più. Un pomeriggio mi accorsi che stavano caricando a bordo parecchie buste di cibo ed acqua. Chiesi alla donna cosa avesse in mente e, con un velo di tristezza mi disse, almeno così credo di aver capito, che per bisogno era stata costretta a vendersi a quella persona che comunque gli aveva promesso di accompagnarli fino a Genova, di vendere la barca e permettere loro di raggiungere la Germania dove avevano dei conoscenti. Partirono e dopo qualche giorno sapemmo che erano stati fermati dalla Guardia Costiera a Ischia, e che gli avevano sequestrato la barca perché priva di documenti, però gli avevano riconosciuto lo stato di rifugiati politici.

Una sera Liuni cadde col motorino in una curva perché disse, essendo completamente ubriaco, gli sembrava un rettifilo. Lo portammo nell’Ospedale di Maratea dove gli riscontrarono la frattura di un braccio ed altre piccole escoriazioni. Alla terza pastina in brodo che la Suora gli portò come pranzo, lui la chiamò e gli fece notare che nel volo che aveva effettuato l’ala si era rotta ma il becco era rimasto sano, poteva quindi tranquillamente mangiare di tutto. Poi anche lui se ne partì con la sua barca per Scario e poiché il vino e la vita da marinaio girovago lo avevano fiaccato, abbandonò la pesca ed accettò l’incarico di fare il guardiano a tempo pieno in un villaggio che stava nascendo su una collina vicino Scario.

Lo rividi qualche anno dopo nel mezzo di una festa a Scario dove lui ancora continuava a fare il capocerimoniere e, quando mi riconobbe, fece zittire il rumoroso gruppo di amici e disse :”Chistu è u figliu roru i Maratia”, mi abbracciò stringendomi per lungo tempo e, nonostante la puzza di vino fosse tanta, non riuscì comunque a coprire il profondo affetto che scaturiva da quell’abbraccio.

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