Le botteghe del Porto

Le botteghe del porto anni ’40

 

In questa pagina, si intende raccontare, per meglio inquadrare gli usi e i costumi della comunità marinara di Maratea a cavallo degli anni ‘40, dove erano ubicate e da chi venivano gestite le botteghe del borgo marinaro. Si può dire, senza tema di smentita, che gli esercizi commerciali dell’epoca fossero tre:

‘a “putìa” (bottega) ‘i Tetella, ‘a cantina ‘i Virgiliu e ‘a “putìa” ‘ i ‘Ntoniualfieru.

 Antonio Campagna Alfieri, uomo dal carattere alquanto scontroso, era originario di Amalfi ed aveva la sua “putìa” lungo la scalinata che conduceva al vecchio ufficio postale, al piano terra della casa di Don Pietro (il medico condotto del porto). Lì dove, in una piccola grotta è posta, e tutt’oggi esiste, la statuetta della Madonna di Lourdes. ‘Ntoniualfieru gestiva il negozio con una ragazza da lui adottata, Carmelina, che aveva la vocazione a farsi suora; cosa che poi realizzò una volta morto Antonio: vendendo tutto e diventando monaca di clausura in un convento di Roma.

 Al centro del locale in cui si vendevano generi diversi oltre che gli alimentari, era posto il bancone in legno con il piano di marmo bianco su cui era poggiata una bilancia a contrappesi e quelli che per noi bambini di allora erano le “mercanzie” più attraenti: tre grossi vasi in vetro contenenti rispettivamente le liquirizie a forma di barchetta, le mentine verdi a forma di cappello di fungo e infine le liquirizie lunghe. Sulla sinistra, entrando, era posto un mobile in legno con scomparti contenenti pasta, fagioli e semole, mentre sulla destra, oltre a contenitori per detersivi sfusi (sapone a pezzi per bucato, candeggina ecc) vi era una credenza con articoli da regalo e stoffe.

Per finire, alla sinistra del bancone, e quindi sempre a portata d’occhio del negoziante, vi era una botte da 25 litri da cui si spillava vino marsala che arrivava dalla Sicilia via treno. Sia ‘Ntoniualfieru che Tetella (foto), non avendo i clienti del tempo quasi mai la possibilità di pagare in contanti la merce comprata, segnavano gli acquisti su un libretto, riportando la cifra da incassare che veniva a sua volta scritta su un quaderno che restava nelle mani del cliente. Quando questi portava il contante l’importo versato veniva cancellato sia dal libretto del commerciante che dal quaderno del cliente.

 Altro metodo di pagamento era quello di scalare i debiti dal credito che i due commercianti dovevano alle famiglie che portavano loro i colli di corde vegetali, (che loro vendevano all’ingrosso agli allevatori di cozze), prodotti nella settimana. Per avere un ordine di grandezza basti pensare che attorno al 1958, un collo di “libbani” valeva 800 lire (venduto al commerciante) e che per produrlo occorrevano circa 30 ore di lavoro retribuite (stima del costo manodopera, poiché ciascuno lavorava per sé) a 16 lire cadauna. A “putìa” ‘i Tetella, zitella dal carattere risoluto e notoriamente predisposta alla “zilla” (litigio), era ubicata nel locale in cui oggi sorge la pizzeria appena aperta.

Oltre ai generi alimentari, Tetella vendeva tabacchi che a quei tempi potevano essere (sia sigari che sigarette) venduti sfusi. Le sigarette che più si vendevano all’epoca erano Alfa, Nazionali e Stop con filtro e senza che venivano smerciate in piccole bustine; e sigari Toscani che il compratore aveva facoltà di tastare (con scarsa attenzione all’igiene) per adeguarli al proprio gusto. Veniva altresì venduto tabacco sfuso (il cosiddetto trinciato forte) adoperato sia per le pipe che per le sigarette non confezionate. Il locale aveva sulla sinistra, entrando, un bancone predisposto per la vendita dei tabacchi mentre sulla destra, su due assi in legno collocate a due diverse altezze, trovavano posto i sacchi di pasta di diversi formati, che veniva venduta a peso secondo richiesta, nonché quelli contenenti legumi. Alle spalle della pasta vi era un secondo bancone con sopra la bilancia e i contenitori delle caramelle sfuse. Dietro una tenda, di fronte all’ingresso e appena dopo i due banconi, trovavano posto i contenitori dell’olio e del vino.

La cantina di Virgiliu era situata dove ora si trova il locale del bar all’inizio di via Racia (foto), appena dopo gli uffici della Cooperativa Molo Nord. Entrando sulla sinistra, trovava posto il bancone mentre, sulla destra, erano posizionati un paio di tavolini su cui giocavano a carte i pescatori. Nelle giornate d’inverno zù Monicu, Uà Uà, zù Luiggiu, Gnàziù, ù Pacciu ecc, si sfidavano a maniglia, a tresette o scopa. Negli anni 40 il vino si vendeva, al banco, sfuso in bicchieri da un quarto (costo 5 soldi).

I primi avventori della cantina, erano, nel primo pomeriggio, Taglicapu, Cazzaneddu e UàUà che ordinavano “’nu quartu ‘i vinu”, a volte allungato con gassosa; successivamente, appena sopraggiungeva il buio, arrivavano i giocatori di carte che si intrattenevano nel locale inondato dal fumo delle sigarette, a volte, fino alle dieci di sera. Le sfide a carte, di solito tra quattro persone, si concludevano con la consumazione, pagata dalla coppia perdente, di mezzo litro di vino e una gassosa con il gioco del “padrone e sotto”.

Si distribuivano quattro carte napoletane a testa e il miglior punteggio conseguito, a primiera o fruscio (quattro carte dello stesso seme), stabiliva il “padrone” della bevuta mentre il secondo miglior punto decretava il “sotto”. Il padrone aveva la facoltà di bere tutto il vino, senza interpellare nessuno, mandando “a urmo” (dal greco erimus, lat privatus, orbus, ossia privato ,orbo)  tutti gli altri partecipanti al gioco (a volte intervenivano una o più persone, estranee alla partita, che mettevano in palio “a quarta” ossia un ulteriore quarto di vino, a loro spese, pur di partecipare al gioco finale); oppure poteva proporre al “sotto” di far bere un bicchiere ad uno dei giocatori. La richiesta, se trovava il beneplacito del “sotto”, veniva esaudita altrimenti no. Se nessuno degli inviti del“padrone” andava a buon fine il “sotto” intimava a questi “o libera” (dare la facoltà al “sotto” di far bere chi gli pareva) “o bevi” (il “padrone” doveva bere tutto il vino). Va da sé che, una sera sì e l’altra pure, questo giochino mandava a casa qualcuno malfermo sulle gambe e qualcun altro a secco.

Di fianco alla cantina, nel sottoscala che conduceva alle case di Sambrangischeddu e Rosolia, Virgiliu, con la collaborazione del figlio Giuseppe (zù Peppu), gestiva una piccola macelleria dove, prima della guerra, macellavano una pecora a settimana. La ragione della scarsa varietà di animali macellati (non si macellavano bovini) dipendeva da due fattori: uno di carattere pecuniario in quanto non circolavano soldi, vista la povertà del tempo e l’altro pratico, vista l’assenza sia di cucina a gas che di frigorifero. Difatti sino al dopoguerra si cucinava sul fuoco del camino sul classico “trippitu” (trepiedi) per cui, non avendo la possibilità di conservare cibi, si comprava la quantità da consumare in giornata.

Solo intorno al 1947, anno in cui un certo Antonio Cernicchiaro aprì un negozio di elettrodomestici alla stazione in cui si poteva comprare, a cambiali, si iniziò a cucinare su un fornello di tre fuochi a gas comprato alla somma di 50 lire. Questi erano i principali esercizi commerciali del borgo marinaro del Porto dagli anni Trenta a metà anni Sessanta. In effetti, però, era presente, nel palazzo di Riccio, (dove è attualmente il ristorante 1999) un panificio molto rinomato gestito da Attanasio Gennaro, originario di Sapri, stabilitosi al porto perchè fidanzato con Clarina Romano che in seguito sposò. Di fianco alla macelleria vi era altresì un mini negozio di bevande: gassose, birre, chinotto e spuma (una specie di coca cola) gestito da Rosolia che funzionò fino agli inizi degli anni Sessanta quando si iniziò la costruzione del porto.

Oltre le botteghe fisse ,vista la cronica mancanza di denaro, il commercio veniva praticato da una miriade di venditori ambulanti che scendevano dalle scale della stazione aggirandosi poi per il borgo con la cesta sulla testa. Passava ogni mattina  la donna col latte ( Carmela ), poi quella col pane ( Cicchina) , poi qualla con la frutta e verdura ( Vicenza ), poi passava periodicamente u ” pannazzaru ” che raccoglieva lana e  latte di alluminio oltre a qualsiasi cosa che poteva avere un minimo di valore. Passava pure di tanto in tanto u ” mprellaruru “, u ” scarparu ” u ” sanapurceddu ” che sterilizzava i maialini  da macello, ammolaforbici  ( l’arrotino ) e u ” pizzenti ” che cercava l’elemosina, uno degli ultimi era soprannominato  ” u nciacciu “. Non sempre lo scambio avveniva attraverso il denaro, spesso si facevano scambi di merce. Dal Porto invece le  donne, mogli dei marinai, partivano ogni mattina ( quando il mare permetteva di pescare ) con la cesta piena di pesci dal Porto verso Maratea, Fiumicello e a volte anche verso Trecchina a vendere il pesce pescato fresco e anche loro spesso usavano il baratto come sistema di vendita tornando dal giro con qualche frutto, uova, verdura, formaggio ecc nella cesta. Spero di aver reso l’idea di come si viveva la vita quotidiana del borgo marinaro del Porto in quegli anni sicuramente permeati di miseria e privazioni ma altrettanto non inquinati dalla televisione e da tutte le cazzate moderne.

Antonio Chiappetta

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